> Tratto da www.repubblica.it
REPORTAGE ---------------------------------------------- "Noi operai Chrysler con la morte in faccia resuscitati dalla cura italiana e dall'orgoglio" --------------------------------------------------- "All'inizio ci siamo offerti volontari per qualsiasi cosa. Ora lavoriamo con il Wcm: leggi qualità". Viaggio nello stabilimento di Jefferson dopo il piano Marchionne da 700 milioni --------------------------------------------------- di SALVATORE TROPEA ------------------------ "Noi operai Chrysler con la morte in faccia resuscitati dalla cura italiana e dall'orgoglio"
DETROIT - "Noi che abbiamo visto la morte in faccia, sappiamo che cosa vuol dire essere resuscitati e siamo orgogliosi di avere contribuito a questa rinascita della Chrysler".
"Viviamo in maniera sostanziale la partnership con Fiat, come una vera partnership, a differenza di quanto è accaduto con altre esperienze del passato, anche recente". Cynthia C. Holland, opulenta e simpatica ragazza di colore, descrive l'altra faccia della luna, quella di un posto come la Chrysler di Jefferson, unica fabbrica di automobili sopravvissuta, nell'area di Detroit, alla grande diaspora che in poco tempo ha visto disperdersi o declinare i colossi dell'industria dell'auto.
Ha buon gioco a parlare così perché dirigente di un sindacato, la UAW (Unione Auto Workers) che ha un rispettabile peso nell'assetto azionario della società. Essere socio piuttosto che controparte sociale vuol dire tanto. Ma lei dice che "non è soltanto un problema di ruolo". "Qui ha contato e conta ancora il fatto che la gente ha capito che eravamo arrivati all'ultima spiaggia e si è rimboccata le maniche, in senso vero non metaforico. Quando si è trattato di riorganizzare la fabbrica per metterla in grado di produrre la Grand Cherokee, la gente si è offerta volontaria per venire a pulire, tinteggiare, riportare questo posto all'onore del mondo. E guardi con quali risultati. Per questo parlo di orgoglio".
A Jefferson, uno dei pochi quartieri industriali di Detroit che ancora conserva tracce dell'antica grandezza, la Chrysler di Sergio Marchionne ha investito 700 milioni di dollari (poco meno della cifra investita da Fiat a Pomigliano d'Arco), per cominciare la risalita verso la riconquista del rango che aveva negli anni ruggenti in cui era la rispettabile e temuta seppure più piccola delle big three dell'auto a stelle e strisce. I soldi ma anche la collaborazione e il dialogo. Qui Marchionne si è messo sulla frequenza d'onda americana, cosa per lui facile, e ha vinto. Se restituirà, come conta di fare, entro il 2014 i 7,4 miliardi di dollari che deve per 5,8 al Tesoro Usa e 1,62 al Canada, dopo controllerà una quota superiore al 50 per cento della Chrysler di cui è ceo. Lui italo-canadese, padrone in terra americana.
Sulla facciata della torre che domina il quartier generale di Auburn Hills, un complesso che per grandezza è secondo solo al Pentagono e forse, dicono, alla ex residenza di Ciausescu, si legge a caratteri cubitali "The things we make make us" per dire che uno conta e viene percepito per quello che pensa e che fa. Per Marchionne questo vuol dire la strada verso il successo, ovvero verso una Fiat che diventa americana e mondiale e una Chrysler che, grazie al Lingotto, torna tra i grandi dell'automobile. In numeri, oltre 6 milioni di vetture assieme nel 2014. Nell'ingresso del palazzo la cui torre si alza nel cielo come il silos di una farm da prateria americana di pietra grigia e rossa, un'aquila ad ali spiegate color verde smeraldo, più che simboleggiare la grandezza appannata del passato segnala le ambizioni che Marchionne ha trasmesso per il futuro ai 51 mila lavoratori (di cui 36 mila colletti blu) sparsi negli stabilimenti di America, Messico e Canada.
In un luminoso corridoio centrale pende dal soffitto una grande bandiera bianca bordata di rosso con al centro due stelle, una nera e una gialla, a indicare i morti nelle guerre e i superstiti. Ai lati si aprono altri corridoi segnalati con i numeri come le avenues americane: ovunque grandi murales che mostrano operai e famiglie sorridenti. Una Grand Cherokee fa bella mostra di sé all'ingresso, quasi a indicare il primo grande passo verso la risalita. Poco lontano, la piccola 500 arrivata a Torino e pronta per essere prodotta a Toluca in Messico, è su un congegno nei pressi della galleria del vento: la stanno sottoponendo ai test necessari per consentirle di affrontare poi il mercato americano. Gli italiani, per dire gli uomini Fiat, che stanno guidando la "renaissance" sono undici, compresi i pendolari come Marchionne diciotto in tutti gli Stati Uniti. Vivono nelle cittadine attorno a Detroit e non hanno la pretesa di tornare a casa ogni fine settimana come facevano i manager tedeschi della Daimler. A tenerli in tiro ci pensa Marchionne. Risultato: hanno accorciato di 3-4 mesi il timing dal congelamento del progetto all'entrata in produzione di una vettura.
A una cinquantina di chilometri, nella storica fabbrica di Detroit, gli operai raccontano che appena un anno fa, quando il fallimento sembrava dovesse cancellare l'azienda dalla storia, i dipendenti erano 47 mila. Oggi sono oltre 50 mila. "Vuol dire che non ci sono state solo uscite ma anche assunzioni e per giunta in larga parte di lavoratori qualificati con un elevato titolo di studio" dice Massimo Risi, un ingegnere arrivato qui dagli stabilimenti di Bursa in Turchia, col compito di responsabile del World class manifacturing. Che poi vuol dire "la capacità di lavorare al meglio, incrementare la qualità, ridurre a zero gli sprechi".
Questa della Wcm sembra essere la chiave di lettura del successo. Non solo nel racconto di Marchionne che sarebbe più che comprensibile. Sono i lavoratori, le donne e gli uomini in larga parte neri e latinos che affollano le officine rimesse a nuovo sulle linee delle quali scorrono le Grand Kerokee, a confermare questa "filosofia" spiegandola con un'aria di partecipazione impensabile altrove. "Se vuoi difendere il tuo lavoro devi saperlo fare bene" dice un corpulento operaio negro: un anziano che guadagna 28 euro lordi l'ora per quaranta ore settimanali, mentre il suo vicino dalla faccia ispanica, ne guadagna 14 essendo entrato da poco. "A noi va più che bene - dicono - perché abbiamo il lavoro e se provi a farti un giro nelle periferie di Detroit capirai meglio cosa vuol dire".
(22 luglio 2010)
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